Recensione N.16: “I sessanta nomi dell’amore” di Tahar Lamri

A cura di Francesca Chiarla

Chi conosce Tahar Lamri non può ignorare l’importanza che l’autore algerino conferisce alla scrittura e, soprattutto, a ciò che significa la scelta dello scrivere in una lingua straniera per l’ “io scisso” di chi, pur non possedendo l’italiano come lingua madre, la assume come lingua letteraria. Spesso, nei suoi interventi e nelle sue interviste, lo scrittore ha posto l’attenzione sul significato più profondo di questo atto letterario che riconduce al desiderio ed all’illusione di aver messo radici che hanno la caratteristica di essere superficiali come quelle della mangrovia “sempre sulla linea di confine, che separa l’acqua dolce della memoria, da quella salata del vivere quotidiano” costruendo nuovi linguaggi a partire da una mescolanza di voci che conferiscono all’italiano altre tonalità e sfumature.

sessantanomi1Anche nel libro “I sessanta nomi dell’amore”, la lingua e la scrittura sono le protagoniste della corrispondenza telematica fra una scrittrice italiana ed un letterato maghrebino che fa da sfondo e da collante ai racconti di cui è composto il testo che, per le tematiche scelte, dà un quadro generale di tutto quel bagaglio personale e culturale che qualsiasi migrante porta con sé.

Il primo contatto fra Elena e Tayeb, i protagonisti attorno ai quali si costruisce il testo, avviene proprio a causa di un dubbio linguistico dal quale prende il via uno scambio di idee ed opinioni che man mano assumerà un carattere confidenziale fino a spostarsi su un piano più personale per coinvolgerli in una relazione vissuta e sviscerata attraverso la magia della parola:”…sono in ascolto, avverto le vibrazioni, sento cosa mi dici, leggo i tuoi verbi ed i tuoi aggettivi, lettura fata aspetto la loro lenta incisione in me…” (p.103). Inoltre, la relazione amorosa serve all’autore per porre l’accento su quelle tematiche esistenziali legate all’esperienza migratoria che riassumono lo scontro prima e la mescolanza poi fra Oriente ed Occidente: “…lo straniero conosce “in vita” l’esperienza della morte. Si muore a degli affetti, dei paesaggi, dei pensieri, per rinascere ad altri affetti, altri paesaggi e altri pensieri” (p.41).

Alla luce del viaggio che l’ “io migrante” compie partendo dalla propria cultura d’origine per arrivare alla cultura del paese che lo accoglie, Tahar Lamri affronta, nei racconti raccolti in questo testo, le tematiche più svariate che vanno dalla descrizione delle tradizioni ed usanze della sua terra che affondano le loro radici nella storia del popolo Tuareg e nel rispetto delle leggi del Corano ai sentimenti di chi arriva e,come un assetato in cerca del suo miraggio,vive l’ansia dell’integrazione a tutti i costi o di chi, più disincantato, ironizza sugli stereotipi inflitti dalla società e legge l’Italia per ciò che è sempre stata, ovvero un recipiente che ha raccolto culture, tradizioni e lingue differenti.

Meritano un approfondimento particolare i due racconti “Solo allora, sono certo, potrò capire” vincitore della prima edizione del Concorso letterario Eks&Tra e “Il pellegrinaggio della voce” per la scelta delle tematiche affrontate e per l’originalità nel parlare dell’incontro/scontro fra culture diverse. Nel primo racconto, lo scrittore descrive in modo efficace le differenze di prospettiva fra un immigrato di prima generazione stabilitosi in Svezia ed un immigrato di seconda generazione nato in Francia da genitori algerini che si ritrovano a condividere parte del loro viaggio di ritorno alla terra d’origine. Mentre da un lato ritroviamo il tipico atteggiamento disfattista di chi ha lasciato tutto per rifarsi una vita in un altro paese, dall’altro c’è il desiderio forte di conoscere le proprie radici che, in nome dell’integrazione, sono sempre state celate ed omesse. Questo argomento, spesso analizzato da scrittori migranti in altre realtà europee, pone il suo accento su come il desiderio di integrazione dei padri abbia portato i figli a condurre un viaggio a ritroso nel proprio passato per conoscere quelle tradizioni che sono parte di quell’ identità scissa, spesso causa di una condizione di non appartenenza: “A mio figlio…lo sai avevo deciso di non insegnare né l’arabo né il berbero, ma dopo dieci anni che veniamo in questo paese, ha imparato tutte queste lingue e adesso sogna di studiare lingue orientali..” (p.22).

Nel racconto “Il pellegrinaggio della voce”, il parallelo fra la tradizione orale araba e quella italiana si amplia ed arriva ben oltre attraverso l’utilizzo del dialetto mantovano per celebrare non la ridondante lingua italiana del Manzoni, piutosto quella “assediata e ferita” da nuovi elementi stilistici che danno spazio a nuove forme di espressione. La figura romantica e mitica del cantastorie ripercorre in questo testo paesi e culture in modo trasversale, forse per ricordare e sottolineare l’esigenza di tutti di avere narratori che, come il baobab quando è spoglio, sembrano “avere le radici per aria”. E proprio nella personalità eccentrica di questo personaggio, lo scrittore fa convergere due culture che sembrano diametralmente opposte, quella araba e quella italiana, ritornando ad un passato non molto distante che le avvicina: “Nella terra di mio padre i cortili non sono diversi dalle vostre aie, luoghi dello scambio e dei sentimenti. Luoghi delle risa e dei pianti. Nella vostra aia c’era la cattedrale quercia e nel mio cortile c’era la moschea palma. Come vedete, sono uguali e diversi, come due gemelli, questi nostri parenti.” (p.93).

Giunti alla fine del libro, davvero possiamo dire che l’amore è presente fra le sue pagine; dalla relazione passionale che conosciamo attraverso uno scambio di e-mails al ricordo malinconico della propria terra d’origine fino alle aspettative di chi approda in un paese straniero. Ed ecco che nasce la necessità di auto-narrarsi per non essere fraintesi, per parlare e non essere parlati e per sentirsi finalmente parte di un presente mutevole che tutti, con le nostre differenze, contribuiamo a rendere più ricco e più libero.

La scelta dell’italiano per lo scrittore migrante si introduce proprio nel discorso del bisogno di essere ascoltati in una lingua che, non essendo quella di nascita, libera dagli stereotipi e dà voce a ciò che normalmente rimarrebbe confinato all’ambito personale e confidenziale. In questo modo, il testo ci parla di un altro tipo di amore che nasce dal desiderio di conoscere così a fondo questa lingua che la si può fare propria a tal punto da dimenticarci di lei ed usarla liberamente come strumento di espressione.

 

I sessanta nomi dell’amore, Tahar Lamri, Editore: Traccediverse; Collana:Mangrovie; 12 euro. Isbn: isbn 8889862351