Recensione N. 33: “Il villaggio senza madri” di Ingrid Beatrice Coman

UN LIBRO LEZIONE DI VITA

Recensione a cura della Dott-ssa Diana Pavel Cassese

“Il villaggio senza madri” di Ingrid Beatrice Coman -racconti (casa editrice Rediviva Edizioni, Milano, 2012)

villaggio-senzaProprio in questi tempi in cui si parla molto di bimbi contesi, figli sottratti al padre e portati via dalle mamme nei loro paesi d’origine, esce questa commovente raccolta bilingue di racconti, firmata da Ingrid B. Coman, che ci offre mille spunti di riflessione, con una costruzione narrativa molto interessante: l’autrice si fa portavoce di dieci bambini, dunque ci offre dieci storie non disparate ma che comunicano fra di loro come nel principio dei vasi comunicanti, basate su una dualità: il vizio e la virtù. Si parte, si abbandona per soddisfare dei vizi ma è un viaggio che nasce virtù, è una solitudine che genera nel bambino un risveglio mentale, una preparazione (“Un giocatolo per gente sola”: la morte del nonno, dopo la morte del padre trova Magda preparata), che rende i legami più forti, che spinge il bambino rimasto solo ad una maturazione precoce, ad una crescita in fretta. Il bambino conosce suoi limiti.

Sono dei racconti che arrivato dritto al cuore, toccanti come la fiaba che ci ha accompagnato l’infanzia, “La piccola fiammiferaia”, con un filo conduttore: il topos casa che diventa un’Itaca triste, dove Ulisse -un vero anti-eroe- è rappresentato dalla mamma, dove non ci sono vincitori e né vinti, dove Penelope è il bimbo abbandonato, in una eterna attesa che cerca di fare (di ri-costruire) la mamma, come Penelope il suo telo, i colori del viso, l’esuberanza del carattere (la mamma di Catalin in “Se il latte finisce”), i suoi odori (torna la metafora del profumo- “Pegno per mamme” e “La matita rossa”), la sua camminata, le ultime sue parole: “sei un uomo, figlio mio, devi essere forte, coraggioso e saggio”(“Pegno per mamme”). L’autrice vuol indurre lettore ad uno stato di concentrazione, si arriva ad un catarsi. Non cerca di dare consigli agli adulti, ci dice solo di accennare raccontando certe cose che esistono e che fanno pensare. La memoria dei dolori si trasforma in lezione di vita, comportamenti da non imitare.

Nei dieci racconti sono riportate emozioni vari vissute dai bambini: da vedere l’impatto con il negozio di pegni, l’allontanamento improvviso della mamma, a volte anche del papà (come nei racconti “Non toccarmi” o “Un mondo perfetto”), la separazione dei genitori (il caso dei genitori di Irina in “Non toccarmi”), la morte dei parenti stretti (“Un giocatolo per gente sola”) etc– tutti dei momenti faticosi da affrontare per un “piccolino” così si spiega il senso di responsabilità degli adulti a cui si appella l’autrice nell’avvertimento iniziale: “Dieci. Dieci bambini che avevano qualcosa da dire (…) Io non ho fatto molto. Mi sono soltanto messa in ascolto. (…) Io ho fatto il primo passo nel loro silenzio. Invito altre penne a fare il secondo, e poi il terzo, finché tutte le voci rimaste ancora inascoltate non trovino il cuore giusto che le accolga”. Molto bella è la delicatezza dell’autrice che nasconde nelle parole: “Mi sono soltanto messa il ascolto, in rispettoso silenzio, in quei momenti sacri della giornata in cui tutto tace (…) e allora si può sentire, appena sussurrata, la voce nascosta e misteriosa di chi non parla mai, ma manda fuori nel mondo le vibrazioni del proprio cuore, affinché qualcuno possa raccoglierle e raccontarle”. È molto interessante questa visione sul ruolo dello scrittore: è di raccogliere le vibrazioni del cuore, di tradurle in scrittura, di raccontare le vibrazioni del cuore. Questa raccolta di racconti diventa una specie di diario sapienziale con ruolo di attirare verso la buona sorte e di schiacciare le difficoltà.

I tristi simboli dell’altrove sono “quelle terre straniere” (p. 107), “quella fortuna lontana, ricorsa da tutti coloro che se ne andavano” (“Non toccarmi” -p. 88). Interessante è che nella mente del bimbo abbandonato non esiste mai una patria d’adozione ma c’è sempre “quella terra lontana”.

Gli elementi che compongono il mondo della sofferenza dell’attesa e dell’abbandono, sono: il telefonino diventato negli occhi del bimbo abbandonato “un giocattolo per gente sola” (p.131), “treno nemico” o il “treno buio e ostile” (“Non toccarmi”), “la telefonata dall’estero” e i genitori che diventano “solo voci metalliche al telefono” o ancora (in “Un giocatolo per gente sola”-p.124) “il filo attorcigliato del telefono sul corridoio”, i bisogni che cacciano “la gente dalle loro case” (“Perché i maiali non muoiono di vecchiaia”-p. 109), “gli occhi persi dietro a un pullman che non ferma mai nel nostro villaggio” (“Perché i maiali non muoiono di vecchiaia”), “iI pulmino bianco pieno di ragazze malinconiche” (“Un giocatolo per gente sola”), l’odore “estraneo di inchiostro misto a petrolio, di cui anche i vestiti (della mamma) e i capelli erano intrisi” (“Non toccarmi”), la mano sudata e tremante (“Non toccarmi”), la bimba che chiede “con un filo di voce” alla mamma “Te ne vai ? (…) Stanotte?” (“Non toccarmi”), il signore che bussa alla parta del piccolo Catalin in “Se il latte finisce” e che “aveva capito che era arrivato in un momento di bivio (…)e che stavolta non sarebbe andato via a mani vuote.”, “la preghiera infilata di nascosto sotto la candela in cucina” dall’eroina di dieci anni in “Un giocatolo per gente sola”, o la malinconia che “penetra nelle ossa (del bambino) notte dopo notte come un reumatismo precoce” (“Una marachella per la mamma”), o la solitudine che “ti siede accanto sul terrazzo, come un cane affamato, nelle sere in cui la malinconia sembra schiacciarti il cuore contro il costato” (“Un mondo perfetto”), il postino che nella mente del bimbo Marius si tiene per sé le lettere della mamma (“Una marachella per la mamma”). La voce della mamma rimane sempre impresa nella mente del bambino: “aveva una voce che li trafiggeva il costato inchiodandolo come una farfalla in un insettario e confondendo i suoi pensieri come un vento d’autunno mescola le foglie”. (“Se il latte finisce”) Quasi sempre la mamma è perfetta: e bella e sa cantare (come la mamma di Catalin in “Se il latte finisce”: “era così bella che Catalin….”), ha un profumo unico al mondo (“il suo profumo di lavanda secca”) e il suo profilo si ricomporre da piccoli gesti: “la guancia sulla spalla quand’era stanco e lei lo prendeva in braccio”, “la mano sulla fronte quando aveva la febbre”.

  • C’è un motivo ricorrente nel libro, la strada che diventa una metafora del destino. Abbiamo nel nostro destino una fatalità. L’abbandono, la mamma che “tradisce” il bimbo e parte è come una fatalità: “E la sorte aveva fatto salire sua madre su un pulmino bianco pieno di ragazze malinconiche, una mattina di settembre” (“Un giocatolo per gente sola” –p. 128) o ancora nel racconto “Se il latte finisce”: Catalin “sentiva che tutto quello che era successo dopo- era scaturito da quella tazzina di latte caldo che una sera di tardo autunno sua madre non era riuscita a mettergli tra le mani. Ci sono cose nella vita che cambiano il tuo destino con la loro semplice assenza.” (p. 70).

  • Carpe diem è un altro motivo del libro: “Poco tempo dopo, quella megera sdentata le aveva portato via anche il nonno. (…) Una cosa però aveva appreso Magda da quelle partenze improvvise: che devi gioire di ogni attimo, che ogni respiro potrebbe essere l’ultimo, che non devi mai lasciare una storia non raccontata(e torniamo alla missione dello scrittore) o una parola buona non proferita per il giorno dopo”(p. 127). Col racconto “Una marachella per la mamma”, capiamo meglio la difficile gestione delle regole nell’ambito famigliare quando mancano i punti di riferimento come mamma o il papà. E per questo che Marius, il protagonista di “Una marachella per la mamma” è un bimbo vivace, dispettoso: “Le aveva prese da sua nonna, le aveva prese da suo nonno, la maestra l’aveva sgridato e l’aveva buttato fuori dalla classe, e, infine, il postino l’aveva schivato come un cane rabbioso (…) che l’ultima volta gli aveva morso il polso della mano fino a fargli uscire il sangue e gli aveva fatto cadere la borsa con dentro le lettere”(p. 138). Tensioni e conflittualità negative (tra Liliana e la famiglia della zia Sonia in “La matita rossa”, tra Marius e i nonni in “Una marachella per mamma”) spesso nascono proprio dall’assenza della genitorialità e dall’incomprensione dei sostituti (nonna in “Pegno per mamme”, nono in “Se il latte finisce”, la zia Sonia e “la donna massiccia e burbera” in “La matita rossa”) e soprattutto dall’incapacità di saper riconoscere alcuni elementi di questi alfabeti relazioni.

  • Con il racconto “Un giocatolo per gente sola”, tramite la protagonista Magda, abbiamo il rapporto del bambino col Sacro e la morte: “Esisterà anche un Dio dei bambini? E, se esiste, avrà mai tempo anche per i bambini rimasti soli, a casa? Magda no lo sapeva e per ora si limitava a rivolgersi all’unico volto noto, trasformato e adattato alla sagoma del suo cuore, tanto da assomigliare a suo padre quando l’aveva baciata per l’ultima volta sulla fronte prima di recarsi al lavoro, e la sua strada aveva incrociato la strada del treno merci delle otto”(p.125)

  • La morte è vista come gioco, proprio come nella poesia del poeta romeno Tudor Arghezi (1880-1967), “De-a v-ati ascuns” (Nascondino): “Magda non conosceva ancora le sillabe profonde (…) della parola morte(…). Solo più tardi aveva capito (…)che la morte non era un gioco da qui puoi fermarti e prendere una pausa, ma una sorta di nascondino dove la gente resta nascosta per sempre”. (p.126)

T. Arghezi: “Puii mei, bobocii mei, copiii mei! / Asa este jocul. / Il joci in doi, in trei, /Il joci in cate cati vrei. / Arde-l-ar focul.” (“De-a v-ati ascuns”)

La bellezza della scrittura

Se nell’altro libro di Ingrid Coman, “Tè al samovar”, lo style era asciutto, obbiettivo, qui il testo è ricco di meravigliose comparazioni che diventano veri lavoretti da artigiano, tanti simboli e tanti motivi ricorrenti (la strada, la casa, il motivo carpe diem -“Un giocatolo per gente sola”): il negoziante del negozio di pegni ha “le mani pelose e avide simili a due pantegane affamate”, il dolore “accartoccia la mente come un giornale scaduto”(“Pegno per mamme”), “l’assenza di sua madre era scesa nella sua vita come una nuvola densa e soffocante”, “un brivido che si alzava dalle viscere della terra e le si piantava nella pancia come un coltello” o “solo uno scarabocchiare senza senso come se ci fosse passato sopra un esercito di lumache bavose.”(“La matita rossa”), o ancora nel racconto “L’alfabeto sdentato”: “la luce (…)disegnava sulla parete della scuola(…) il profilo di un ragazzino testardo e di un pennino gravido di una lettera misteriosa, come un sigillo sacro su una preghiera non detta”. Molto bella è la metafora del tempo che scorre, la percezione del tempo che passa nella mente del bambino; il punto di riferimento per lui è il giorno dell’abbandono: “Da quando te ne sei andata, l’autunno è passato tre volte dal giardino” (“Pegno per mamme”) o ancora in “La matita rossa”: “Quanto tempo era passato da allora. (…) Molti, (…) pensò, ricordando quella fila di segni tracciati con il carbone sul muro dietro la casa, una linea per ogni giorno, finchè il carbone le si era consumato tra le dita e aveva perso il conto”.

Le emozioni date dal distacco improvviso s’intrecciano sempre con il laitmotiv del silenzio: la mamma di Irina, la protagonista di “Non toccarmi”, si allontana in una notte “piena di silenzi gravidi di parole non dette e di lacrime non piante” o in “Pegno per mamme”: “ti agitavi imbarazzata tra scuse e spiegazioni e alla fine ci hai rinunciato, perché la tua voce non ti seguiva più in quella favola improvvisata per bambini lasciati indietro e l’ultimo passo l’hai fatto in silenzio. Per un attimo quel silenzio nuovo, dal sapore sconosciuto, ci ha uniti e tenuti al caldo meglio di una coperta di lana nel bel mezzo dell’inverno” e più in là aggiunge: “ho capito che la coperta calda del tuo silenzio sarebbe rimasta a lungo la mia unica compagna”, o nel racconto “La matita rossa”:l’assenza di sua madre le era scesa nella vita come una nuvola densa e soffocante e attorno a lei era cresciuto un muro di opprimente silenzio, che si trasformava in bisbigli ogni volta che si allontanava.”), la metafora ricorrente del profumo: (“Pegno per mamme”: “Avevi addosso un profumo di arance (…) e la sua scia è rimasta nell’aria per molto tempo. Ho allargato le narici per respirarlo meglio e imprimerlo nella memoria; ho pensato che forse un giorno sarei venuto a cercarti e allora avrei potuto seguire le tracce di quella fragranza amara, come le briciole di Pollicino. ”, nel racconto “La matita rossa”: “A pochi giorni dalla sua partenza, quel vuoto profumato, che sapeva ancora di lavanda e vestiti di mamma, era stato riempito, dalla sera alla mattina, da una donna massiccia e burbera.”) o nel racconto “L’alfabeto sdentato” al piccolo scolaro Florin il profumo della maestra Maricica “gli conficcava un sapore amaro in bocca”. Nell’ultimo racconto molto suggestiva è la condizione precaria delle tre formiche sole, ed è molto bella la metafora del formicaio, simbolo dell’unione, lì si sta meglio che in nessuna parte, si sta meglio quando si sta uniti.

Il bimbo abbandonato ha sviluppato un istinto di conservazione, di autodifesa, un riflesso negativo del sospetto, un complesso del sospetto, di qui i rapporti conflittuali degli orfani bianchi di Ingrid Coman con gli altri: vedi i rapporti difficili tra Liliana e la famiglia della zia Sonia in “La matita rossa”, Marius che cagna il postino in “Una marachella per mamma” o Irina in “Non toccarmi” che rifiuta ogni gesto affettuoso. Pratticamnete il minimondo si costruisce ad hoc una corazza per far fronte al dolore (“Ma nessuno doveva toccarla e in breve tempo avevano imparato tutti la lezione, sapevano che potevano ottenere tutto da quella bambina strana(…) a patto che (…) non la baciassero nemmeno nel giorno del suo compleanno e soprattutto che non osassero a toccarle il viso”) e al peso della solitudine: “Irina (…) di colpo comprese (…) quanto solitario fosse stato il suo cammino”. Sempre in “Non toccarmi” abbiamo la dignità del bambino e l’amore dei nonni ritrovati sostituti improvisti dei genitori: “Irina non aveva pianto, non si era lamentata, ed era scivolata senza batter ciglio nei nuovi vestiti della sua nuova vita di bambina con la mamma partita all’estero”.

Perché i maiali non muoiono di vecchiaia” e “Non toccarmi” costruiti intorno al tema dell’amore per gli animali (il maiale Ghita e il cagnolino di Irina) che allieva la sofferenza della mancanza del papà (il caso di Daniel) o della mamma (il caso di Irina, la protagonista di “Non toccarmi”): “sapessi quanto mi piacerebbe scambiare due parole con papà” sussurra Daniel al suo maiale, Ghita. Con “Perché i maiali non muoiono di vecchiaia”, così come con il racconto “Un giocatolo per gente sola”, capiamo che la forza dei bambini e la loro sensibilità è molto segnata dalla religiosità. Magda, la protagonista di “Un giocatolo per gente sola”, con la sua serenità davanti alla morte di suo padre e del nonno, diventa quasi “il bambino metafisico” che ci insegna che l’unica possibilità di regolare il nostro equilibrio interiore, spirituale, è stare insieme, ci insegna che cosa deve essere ritoccato nell’animo delle famiglie moderne: la mancanza della comunicazione, la mancanza dell’amore (così dobbiamo capire anche quel filo rosso di colore che unisce i membri della famiglia nei disegni di Liliana -“La matita rossa”).

“Il villaggio senza madri” è un libro scritto in punta di piedi che tratta un tema sensibile e delicato, l’abbandono del figlio per necessità, per esigenze materiali al confine con la sopravvivenza. È un libro che colpisce, che lascia segni, così come l’abbandono lascia segni nel cuore e nella mente del bimbo abbandonato: “Florin aveva sentito un groppo in gola e aveva stretto forte il penino nel pugno, sbattendo le palpebre per non piangere. Era arrivata l’ora di quel viaggio lungo, che temeva più del buio in cantina.” (“L’alfabeto sdentato”) o nel racconto “Non mi toccare”: “Quando si era svegliata (Irina) sua madre non si vedeva da nessuna parte e lei seppe che aveva attraversato durante la notte un confine sconosciuto e che niente sarebbe stato più come prima”. L’ultimo racconto (con la lettera dell’eroina Lisa ai suoi genitori partiti anche loro per lavoro), come suggerisce anche il titolo, “Un mondo perfetto”, è incoraggiante, è un segno di speranza; il finale è luminoso, ottimista: la demolizione della famiglia (con l’allontanamento di uno o più membri) non è per forza una demolizione psichica, il viaggio non è più un viaggio distruttivo è crescita: “Avevi ragione, mamma, penso che i tuoi abbracci a metà mi hanno resa più forte”. Con questo libro, Ingrid Coman si mette al servizio del bambino, diventa la sua portavoce, entra nella mente e nel cuore del bambino per capirlo, per tradurci quello che sente, quello che vuole davvero, quello che è davvero importante per lui. E quello che dobbiamo fare noi tutti. È UN LIBRO CHE CI PROPONE UNA LEZIONE DI VITA.

“Il villaggio senza madri” -racconti (casa editrice Rediviva Edizioni, Milano, 2012)