Recensione 38. “Ciao mamma! Un saluto da Bolzano” di Gentiana Minga

Una recensione di Monica Buffagni.

Ritorno alle origini, siano esse i volti di luoghi amati dell’infanzia, il latte fluido dei ricordi misto al viso materno, siano le esperienze della migrazione, che sempre richiamano il luogo di partenza: questo il tema portante delle liriche (raccolte nel 2015 in “Ciao, mamma, un saluto da Bolzano) di Gentiana Minga, poetessa albanese trapiantata nella ruvida Bolzano, attraverso viaggi e peripezie, letterarie, linguistiche, emotive, concrete e mentali. Una sorta di “ricerca del tempo perduto” proustiana, con i colori e i sapori del profondo nord europeo.

Le prime undici liriche, dolci, vaghe, a volte scabre ed essenziali nelle descrizioni dei paesaggi natii, del mare dei pescatori, a tratti sognanti e avvolgenti come una calda coperta bianca e azzurra, tessono un filo di nostalgia, sulle ali della memoria, alla ricerca della propria identità nelle origini ormai lontane. Colpiscono le figure che popolano questo villaggio della mente, questo passeggiare nei ricordi, riverniciandoli in un presente inquieto; cani solitari, colombe morbide come pelouche, pescatori silenziosi, marinai indistinti, bambine assonnate che vendono semi-ecco che ritorna il tema dei sapori, del cibo come veicolo di sensazioni e pensieri, vero fil rouge della nostalgia della Minga, molto terrena e concreta, appena venata di “una soave polverina”- (lirica 4).

Ogni poesia è una piccola scena di vita, abitata da personaggi, vibranti di quotidianità e dei piccoli, grandi rumori della vita. Madre e figlia a confronto, nodi irrisolti che aspettano di essere sciolti(lirica 7),irrigiditi dalla lontananza, dal distacco fisico, che maschera rimpianti, rabbia, solitudini.

Nella sua lirica essenziale, piana, la poetessa ritrova “il vissuto che tenta di depositare i frutti seminati d’impulso”, sperando in una comprensione partecipe per il “meglio possibile e non voluto”, scelte, esperienze, parole, sentimenti non del tutto compresi in passato e ora riaffiorati, tornati alla ribalta.

Il tema del viaggio, dell’abbandono delle proprie sicurezze per approdare altrove, predomina sulla seconda parte, intrecciando e alternando scene dolci e quiete, immagini luminose a crudezze aspre dal sapore di morte, una “calma battagliera” – felice espressione della Minga in “Sui viali colorati” che racchiude in sé l’animo del migrante, saldo nei suoi propositi e in guerra col mondo che lo obbliga a spostarsi, ad affrontare l’ignoto.

“Il sole sparge in fretta le sue erbe e le sue spezie”, ci racconta l’autrice, in attesa della bufera. Non è forse quello che tutti noi temiamo e desideriamo, insieme?

Latte, fragoline di bosco, uva matura, frittelle fatte di acqua e farina. Si rincorrono sui prati del Trentino Alto Adige i sapori della terra, del bosco, mescolati a quelli dell’Africa di passaggio, a quelli marini e spogli dell’Albania polverosa, trasportando con feroce naturalezza, l’intimo sentire di migranti, della gente sulla strada del destino.

Gentiana Minga ce li restituisce con quieta semplicità ed accettazione, come impastasse il pane sul tavolo di cucina, con le finestre aperte ad ascoltare il mondo e le voci, acute, sussurrate, urlate, stese come bucato al sole e alla pioggia, degli uomini e delle donne che migrano, emigrano, vivono.

Nella terza sezione, la poesia disvela il suo obiettivo, il suo scopo, altare di memoria e furia dell’oblio: non solo ricordare, ma anche cogliere l’irripetibilità dell’attimo, qualunque esso sia, perché “quello che succede in un istante non succederà mai di nuovo”.

Le suggestioni delle terre nordiche altoatesine si ricompongono in un mosaico di colori trattenuti, di istanti vissuti al balcone, vestiti di neve, fissati all’improvviso nel tumulto del sentimento mascherato di banalità. E’ una visita, ora lenta, ora rigida come una saetta improvvisa, al complesso e imprevedibile mondo delle relazioni tra il maschile e il femminile.

Alberi, foglie, piogge e angoli nascosti si alternano e fanno da sfondo a momenti di vita. Molto bella “Prati d’autunno”, in cui si evidenzia il “bisogno sfuggente di rendere felici gli altri”, accettando di farsi calpestare, come le foglie di autunno, per sentirsi accolti: bambini, anziani, donne sole che passano accanto ai vetri, temendo di specchiarsi, ignare della loro bellezza, che si siedono su panche di legno e osservano. Questi i personaggi ricorrenti.

La tormentosa fragilità e complessità dell’amore cantato dalla Minga si ritrova nei suoi versi “chissà a chi stai pensando, mentre mastichi con cura i pomodori tagliati in fretta da me”: già, la lontananza, l’assenza, che maggiormente si sente proprio quando l’altro è accanto a noi, quando dobbiamo confrontarci con il mistero del suo essere, nelle azioni apparentemente più semplici e chiare e molto spesso più oscure e torbide.

Il sogno notturno come evasione, il desiderio di libertà da un legame troppo stretto, troppo intimo, fino a risultare insopportabile, anche solo pe run istante vibra nei versi, riecheggia nella consapevolezza di essere due ignoti in terre lontane, che sentono solo la “fragranza mesta di un amore in atto”. Si ama qualcuno per amare sé stessi, increduli che l’altro davvero riesca laddove noi non riusciamo.

La città di Scutar e le sue ortensie, i garofani, gli azzurri accecanti e i rossi violenti, odore di caffè e brutalità della vita fanno da sfondo alla storia dei nonni dell’autrice nel poemetto conclusivo, intriso di affetto, del desiderio di possedere e comprendere quanto è ormai troppo lontano.

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Ciao mamma! Un saluto da Bolzano  (Terra d’Ulivi 2017) di Gentiana Minga

© Monica Buffagni.. Depositato presso Patamu Registry in data 30/12/2018; numero 96981. Tutti i diritti riservati.

© Monica Buffagni.  Depositato presso Patamu Registry in data 30/12/2018; numero 96980. Tutti i diritti riservati.